martedì 14 maggio 2013

foto-racconto (un esperimento)

ieri, nel posto dove siamo andate a pranzo, sul marciapiede di fronte al ristorante, a un certo punto, è arrivata una bambina. era con suo padre (? credo), stavano su un carretto e ogni tanto si fermavano e raccoglievano cose dalla spazzatura, cosa che capita abbastanza di frequente di vedere, a Bogotà.

solo che questa bambina a un certo punto ha fatto questa cosa straordinaria che ho avuto la fortuna e la prontezza di fotografare all'istante.

ho pensato che una cosa così bella dovevo raccontarla.
e niente, ci ho provato.
qui, sotto la foto, ho messo una specie di racconto che bho, magari non è granchè, ma è la cosa che mi è venuta in mente mentre la guardavo.


Avevo sette anni, ancora me lo ricordo.
Papà mi costringeva a mettere il passamontagna e gli stivali della pioggia.
"Non si sa mai", diceva.

Io non capivo mai a cosa, esattamente, si riferisse.
Cos'era, che bisognava sapere e quando.

Uscivamo prestissimo nel mattino che era ancora notte e lui mi caricava di peso, con le sue braccia magre, sul carretto, davanti, accanto al posto del guidatore.
Poi andava a prendere Felipe, il nostro cavallo spellacchiato e triste, e partivamo.

La giornata era lunga e attraversata da tutte le stagioni.
Ogni pochi metri c'era da fermarsi, scendere e frugare nei sacchi e nei mucchi di immondizia ai bordi delle strade. Ogni tanto si trovavano cose buone, cose che caricavamo sul carretto, da riportare a don Jairo - papà lo chiamava così - da, rivendere contrattando il prezzo.

Ogni tanto trovavo qualcosa anche per me.
Ricordo una felpa rosa, bellissima, della mia misura, che davanti aveva il disegno di un sole grande con la faccia sorridente e dietro, invece, una scritta che non sapevo leggere ma aveva le lettere svolazzanti di allegria. aveva un buco in una manica, ma a me non importava, mi sembrava così bella che non la toglievo quasi mai.
Un'altra volta un braccialetto verde e giallo, di perline di legno. ne mancava qualcuna, ma era bellissimo lo stesso e lo mettevo solo in occasioni speciali, come a Natale o quando papà mi diceva che c'era qualcosa da festeggiare.

Quel giorno era tardi e faceva freddo e ancora non aveva piovuto, ma sarebbe successo presto.
nel quartiere in cui stavamo lavorando c'era in giro poca gente, forse perché era domenica o forse era l'orario del pranzo, a tenere la gente in casa.

Papà stava caricando sul carretto un tavolino di legno, a cui mancava una gamba, ma per il resto era ancora buono.
Io camminavo piano, in bilico sull'orlo del marciapiede, un piede davanti all'altro, come le ginnaste in televisione.

Non guardavo avanti, per non perdere l'equilibrio, ma mi fissavo la punta dei piedi, una alla volta, come procedevano dritti tenendomi sul bordo, a filo.

Quando lo vidi, la prima cosa che mi colpì, fu il colore: un blu fortissimo, faceva quasi male agli occhi, se lo fissavi intensamente, attraverso la carta trasparente che lo avvolgeva.

Era un fiore che avevo già visto una volta, credo, forse ero dalla nonna, in pianura, d'estate.
Mi aveva, mi pare di ricordare, anche detto il nome e raccontato una storia triste e lunghissima che ne spiegava l'origine e il significato. ora i nomi li ho dimenticati e la storia anche, ma quel colore era impossibile, da dimenticare, ti si inchiodava dritto dritto in fondo all'anima e da lì non sarebbe mai più stato possibile eliminarlo: sarebbe diventato l'elemento di paragone con tutte le cose blu che avrei visto nella vita da quel momento in poi. 
Il mare, io, ad esempio, ancora non l'avevo mai visto. Ma mi immaginavo che in certi punti, in certe ore del giorno, forse il mare avrebbe potuto, sì, essere di quel colore lì, accecante e senza fiato.

Persi quasi l'equilibrio, vedendolo, e dovetti scendere dal marciapiede.

Non so chi l'avesse lasciato, abbandonato lì, così nuovo e meraviglioso, in mezzo alla spazzatura.
Forse una fidanzata arrabbiata e risentita - avevo pensato.
O un marito, per ripicca.
Una cosa del genere, insomma. Quei gesti stupidi che a volte i grandi fanno e che agli occhi dei bambini sono tanto indecifrabili.

Improvvisamente, fissandolo per qualche secondo, ebbi, per la prima volta, un pensiero che poi, nella vita, tante volte, se ci ripenso, mi ha salvato.
Seppi, con certezza, che quel fiore non era lì per caso.
Era lì per me.
Perchè io potessi affogarci gli occhi, dentro quel blu perfetto.
E, che se l'avessi fatto, sarei stata salva, per sempre.

Per questo mi chinai piano e lo raccolsi.
Non avrebbe avuto senso portarmelo dietro. 
Sarebbe comunque sfiorito da lì a poche ore, al massimo qualche giorno.
Sul carro non c'era posto per cose come quella: papà voleva cose utili, non necessariamente belle, cose che avrebbe potuto rivendere e il fiore, sicuramente, non corrispondeva a questi criteri.
Portarmelo dietro sarebbe stato solo un impiccio.

Feci l'unica cosa che potevo fare, che avesse senso fare: lo raccolsi e lo posai, piano, davanti a me, in bilico contro il mucchio di sacchi e spazzatura sul marciapiede. dritto come fosse stato in un vaso, tutto il suo blu a spandermisi negli occhi, io, ferma immobile, non potendo far altro che guardarlo.

Rimasi a contemplarne il colore per qualche secondo, prima che papà mi gridasse di andare.
Poi me lo lasciai alle spalle, portando con me solo quel blu che ormai mi aveva colorato indelebilmente tutti i pensieri.

Per il resto della mia vita non ho potuto dimenticarmene.
Tutte le volte che ho incontrato qualcosa o qualcuno che mi ricordasse quel fiore non ho fatto altro che sedermicisi davanti e contemplarlo. Imprimermelo negli occhi, per non dimenticarlo, mai.

Se ci penso, a distanza di tanti anni, è l'unico gesto nella vita che mi abbia davvero salvato.




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